Scrisse molto poco e numerosi dei suoi insegnamenti orali, basati principalmente sulle risposte che dava alle domande che gli venivano rivolte, sono stati trascritti e pubblicati.
Egli si poneva sempre allo stesso livello di colui che lo interrogava e si affidava, spesso, a diversi testi sacri, illustrandoli tramite esempi di vita quotidiana.
Alle domande dei visitatori, rispondeva: «Chi pone questa domanda?», al fine di spingere l’interrogante alla meditazione e a liberarsi dell’illusione dell’ego. Il suo insegnamento era basato sull’esperienza (del risveglio e della sua stessa realizzazione) e sulle risposte che forniva; spesso gli interlocutori erano occidentali e ricercavano la verità ultima, delusi dalla religione:
«L’insegnamento di Ramana Maharshi è basato sulla sua esperienza e mira a condurre l’interrogante alla sua stessa natura.»
Il suo vero insegnamento era silenzioso. Egli stesso affermava: «Il silenzio è eloquenza eterna.» In realtà, l’aura di pace che emanava era tale che la sua sola presenza era sufficiente.
Metteva in guardia contro la ricerca dei siddhis (poteri sovrannaturali) per il proprio tornaconto personale: «Il Sé è ciò di più intimo insito in noi, mentre i siddhis sono a noi estranei […] Non esistono che nella mente, non sono naturali per il Sé e ciò che non è naturale ma è acquisito, non può essere permanente e non vale la pena lottare per ottenerlo. […] Considerando che le persone sono infelici con le loro facoltà di percezioni limitate, allora si può concludere che l’infelicità aumenterà in proporzione all’incremento di tali facoltà. I siddhis non porteranno mai a nessun tipo di felicità.» Malgrado ciò, testimonianze rapportano che egli stesso manifestava simil poteri: guarigioni, materializzazione, onniscienza.
Jean Herbert descrisse così i suoi insegnamenti:
«Ciò che lo rende particolarmente interessante non è la sua indiscussa qualità di jîvan-mukta, che lo accomuna con altri saggi contemporanei…] Oltre all’immenso beneficio spirituale che si trae anche con un contatto breve, con lui, egli dona ai suoi ospiti l’opportunità inattesa e del tutto eccezionale di immergersi nell’India di venti secoli fa. Con un esempio vivo, autentico e reale, si assiste all’ «atto dell’insegnare» dei rishi del periodo upanishadico e alla nascita delle loro opere.
Felice di «risplendere» nel silenzio, sembrando il più delle volte ignaro di ciò che gli accade attorno, e parlando solo di argomenti indifferenti […], trascorre le sue giornate in un’immobilità quasi completa, disteso su un divano, ai piedi del quale, sfilano, di continuo, discepoli e ammiratori per prostrarsi a pancia in giù e accendere gli incensi.»
Secondo Swami Swarupananda Saraswati, l’attuale Shankaracharya di Dwarka e Jyothishpitha: «Sebbene non vi sia alcuna differenza tra l’esperienza di Ramana Maharshi e quella descritta nelle Upanishads, il sentiero di Ramana ha le sue caratteristiche. […] È un sentiero rapido e diretto che ignora la verbosità. Tutti gli altri metodi di realizzazione spirituale trovano un punto di convergenza e un posto nel percorso di Ramana.»